Pesca, agricoltura e artigianato
La più antica attività dei Laiguegliesi è stata la pesca, favorita dalla grande abbondanza di pesci perché la zona era una delle migliori del Mar Tirreno; vi furono adibite fino a trenta barche catturando circa 500 quitali di pesce all’anno che, oltre a costituire il principale alimento della popolazione, venivano in parte salati e in parte venduti nei paesi dell’entroterra. Il declino cominciò nel 1772 quando una terribile burrasca sconvolse il fondo del Golfo, provocando una rovina ecologica (Preve, 1983). I pescatori non avevano una paga fissa, guadagnavano solo in ragione del prodotto giunto a terra.
Un terzo andava al patrone della nave, un altro terzo per la manutenzione delle reti e per l’imbarcazione in generale e il terzo rimanente veniva suddiviso tra gli uomini dell’equipaggio. Le reti da pesca erano lavorate dagli stessi pescatori nelle ore trascorse a terra o dalle loro donne e le corde necessarie venivano acquistate nelle fabbriche più avviate di Savona e di Alassio (Schivo, 2000). I mesi di giugno e luglio erano i più indicati per mettere sotto sale le acciughe: si usavano “e manàte”, reti speciali dalle maglie strette per non far passare la testa dell’animale, che venivano calate verso Capo Mele e restavano a mezz’acqua sostenute da grossi galleggianti “i nattùn”. Le reti si tingevano ogni quindici giorni, immergendole in acqua calda in cui si era fatta bollire corteccia di pino d’Aleppo, ottima per scurirle. Le corde di canapa per le lenze venivano scurite con le carrube ancora acerbe, questo ruolo spettava ai bambini, i quali strofinavano le lenze (Marino, 1991). Nei paragrafi precedenti si è ampiamente trattato l’argomento della pesca del corallo e del commercio marittimo, fondamentali per lo sviluppo dell’economia del borgo.
La vita sui bastimenti era difficile per i marinai, il cibo era povero e consisteva in pesce e carne salata, preceduti da una brodaglia fatta con acqua stagnante, si faceva anche provviste di limoni, prima di partire, per combattere eventuali dissenterie e scorbuto. Essi dormivano in un unico stanzone su cuccette strette e soffocanti, poste a prua. Un grosso problema era la provvista d’acqua, portata a bordo in botti di legno incatramate, per cui si attendeva la pioggia per avere quella fresca.
Dei tutto fare
Non vi era cosa che il marinaio laiguegliese non sapesse fare, costruiva pali, remi, timoni e gli attrezzi per la pesca; lavorava pure a casa, improvvisandosi imbianchino, muratore, elettricista e falegname. Dedicava moltissima cura alla costruzione e all’abbellimento della cassetta personale, dove si riponevano gli effetti personali, i documenti e le lenzuola; ogni marinaio la portava con sé nei bastimenti e fungeva da valigia, da armadio, cassaforte e perfino sedile (Marino, 1991).
Le mutate condizioni del mare e la mutata quantità di pescato spinsero molti marinai a cercare un altro mestiere. La tradizione attribuisce agli immigrati di Andora lo sviluppo dell’agricoltura che restò un’attività secondaria, insufficiente al nutrimento basato sui pesci e sul grano importato. Il terreno coltivabile fu ricavato spianando in collina strette fasce sostenute dai muri a secco, mentre le poche zone piane vicino al mare venivano protette con alte murature. Oltre agli ulivi erano presenti numerosi aranci, mandarini, limoni e fichi. Per irrigare gli orti furono scavati pozzi da cui l’acqua era attinta con secchi a forza di braccia o con norie mosse da asini (Preve, 1983). Graticci di ferro, zinco o canne detti “Virse”, posti sulle terrazze, nei cortili o comunque in un angolo soleggiato, si utilizzavano per far asciugare o per essiccare prodotti diversi, tra cui i funghi “sanguigni o pinaioi”, fichi, mandarini e acciughe (Marino, 1991). Sulla cresta della collina furono costruiti cinque mulini a vento, i loro resti sono diventati abitazioni, mentre altri quattro mulini si trovavano in paese. L’olio, invece, veniva acquistato per la maggior parte nell’ Italia centro-meridionale, spesso miscelato con quello locale, per essere poi esportato principalmente in Francia e in particolare in Provenza.
A Laigueglia, la raccolta delle olive cominciava a novembre e terminava in primavera inoltrata e il prodotto si macinava nei ventisette frantoi del paese; in media si potevano calcolare circa 600 barili all’anno (Maglione et al., 1911).
La cultura del terreno
In qualche altura si coltivava anche la vite in quanto il terreno era molto adatto, in particolare a Capo Mele si produceva un vino chiamato “Ciazze Marenghe”; “è fama che nelle cantine dei Patrizi Genovesi si trovasse di questo vino prelibato in bottiglie polverose con l’etichetta ammuffita dall’umido” (Maglione, 1911: p. 16). Nel 1930, secondo i dati statistici riportati da P. Scotti (1973), il territorio di Laigueglia era circa 1/7 rispetto a quello di Alassio, possedeva 236 ha. di superficie agro-forestale, suddivisi in 58 di culture legnose specializzate (47 ad olivi), 57 ha. di boschi, 77 ha. ad ortaggi e 1 solo ha. di fiori, la maggior parte era tutto incolto produttivo (121 ha.). La quantità di foraggio raccolto si aggirava sui 599 quintali; solo 14 famiglie erano dedite all’agricoltura, delle quali 8 erano proprietarie. Nel campo dell’allevamento (sempre nel 1930), vi erano 13 bovini, 27 equini, 1 suino, 13 caprini e nessun ovino.
Fra il XVII e il XIX vi fu una fiorente industria cantieristica, venivano varate imbarcazioni sino a mille mine, con l’opera e la tecnica dei “Maestri d’ascia, falegnami ed operai. Il legname occorrente veniva trasportato dai boschi vicini di Andora, Stellanello e Calizzano. L’industria su grande scala cessò nel 1807 in quanto i più abili artigiani furono costretti a trasferirsi a Genova a lavorare nel cantiere della Foce per il governo francese. Tra i grandi Maestri si trovano i laiguegliesi Antonio Delfino e il figlio Pietro, i quali insegnarono il mestiere a G. Biga che divenne costruttore di navi per il Re di Sardegna e per il Papa (Schivo et al., 2000).
Un’altra industria molto apprezzata era quella di mobili intarsiati, ad opera di Giuseppe Morando, calabrese di origine, che decise di venire a Laigueglia e mettere su famiglia. I suoi lavori trasudavano maestria e pregio; comò, scrittoi e burò erano richiesti e venduti perfino a Marsiglia, Palermo e Genova a prezzi considerati altissimi, fino a 1000 Lire (Maglione et al., 1911).
Per concludere, anche la tessitura ebbe un importante sviluppo nel borgo, dove circa 50 giovani donne piuttosto povere (alle quali si dava un po’di minestra e qualche sussidio) erano impiegate in questo settore. Il laboratorio, soprannominato “Scuola di Carità” ma chiamatosi realmente “il Sambolino”, occupava due magazzini, in uno vi erano i telai, curletti, pettini per tessere, filare e scardasare (finanziati da un generoso donatore per 4000 L. nel 1793) e nell’altro le donne che lavoravano (Maglione, 1911). Si fabbricavano tovaglie, lenzuola e soprattutto tele da vela. L’azienda smerciava i suoi prodotti anche fuori dal paese fino al 1804, successivamente andò in rovina col tempo.